Mentre uscivo di casa per iniziare la mia giornata, ho assistito a una scena che, purtroppo, è diventata sempre più comune nelle nostre città: un automobilista ha attraversato un incrocio senza accorgersi che il semaforo era rosso. Il traffico attorno a lui sembrava fermo, eppure la macchina procedeva indisturbata, come se fosse in modalità automatica. Questo episodio mi ha fatto riflettere su un fenomeno inquietante e diffuso: il “pilota automatico” al volante.
Oggi, gran parte degli automobilisti sembra guidare in uno stato di semi-coscienza, come se il gesto di spostarsi da un luogo all’altro fosse ormai del tutto meccanico. Non si parla di semplice distrazione, ma di una sorta di robotizzazione dell’esperienza di guida. Invece di essere presenti e vigili, molti conducenti agiscono come se la loro mente fosse altrove. Sembrano muoversi per inerzia, reagendo ai comandi del traffico senza una reale consapevolezza.
Il fenomeno della guida robotica è amplificato da un contesto urbano sempre più automatizzato. Semafori, segnali, navigatori GPS: il cervello umano, di fronte a questa quantità di input predefiniti, sembra spegnersi. Al posto della vigilanza, subentra un’automatizzazione dei gesti. Frenare, accelerare, svoltare: diventano azioni eseguite senza pensare, con la stessa precisione di un algoritmo, ma con meno attenzione.
Le tecnologie avanzate delle auto moderne hanno reso la guida più sicura e comoda, ma allo stesso tempo hanno anche ridotto il bisogno di essere costantemente presenti. Sensori di parcheggio, cruise control adattivo, sistemi di frenata automatica: tutto contribuisce a farci rilassare, ad abbassare la guardia. E quando la mente si scollega, l’automobilista diventa, di fatto, un “robòt”, un pilota passivo, che si affida più alla tecnologia che alle proprie capacità di giudizio.
Il problema emerge però quando si verifica un imprevisto, quando il semaforo rosso non è un semplice input visivo, ma un segnale che richiede attenzione e prontezza. L’automobilista-robot non è in grado di reagire prontamente, non perché non conosca le regole della strada, ma perché, in quel momento, non è realmente alla guida. È fisicamente lì, dietro il volante, ma mentalmente assente.
L’episodio che ho visto è un piccolo segnale di un problema più grande, che riguarda il nostro rapporto con la tecnologia e con l’atto stesso di guidare. Guidare è, e dovrebbe sempre essere, un atto consapevole, che richiede attenzione costante, riflessi pronti e una mente attiva. Se continuiamo a delegare queste responsabilità ai sistemi tecnologici, rischiamo di trasformarci in semplici passeggeri delle nostre stesse automobili.
La soluzione non è rinunciare alla tecnologia, ma ricordarci che al volante siamo sempre noi i responsabili. Anche in un’epoca di auto sempre più intelligenti, la guida resta un atto umano. Non possiamo permettere che la routine o la distrazione ci trasformino in automi. Ogni incrocio, ogni semaforo è un’occasione per essere presenti, per tornare a guidare con consapevolezza e responsabilità.
