Il ciclista come bersaglio: il problema non è la strada ma l’odio

Il ciclista come bersaglio: il problema non è la strada ma l’odio

Pochi giorni fa, un fatto di cronaca ha superato una soglia che non dovrebbe mai essere oltrepassata: un automobilista ha esploso due colpi di pistola contro una squadra di ciclisti impegnata in un allenamento. La reazione immediata è stata quella prevedibile: parlare di odio verso i ciclisti, di conflitto permanente tra chi guida e chi pedala, di convivenza sempre più difficile sulle strade. È una lettura comprensibile, ma rischia di essere parziale.

Il problema non è l’odio per il ciclista. Il problema è che l’odio esiste già, ed è costantemente in cerca di un bersaglio.

Lo dico anche da ciclista. Non per rivendicare una posizione, ma per chiarire un punto: la bicicletta non genera rabbia. La intercetta, la rende visibile, la espone.

Ed è importante dirlo con chiarezza: non tutte le persone odiano. La maggioranza di chi guida, cammina, pedala o corre lo fa con rispetto e buon senso. Il punto è che basta una minoranza rumorosa, aggressiva e fuori controllo per trasformare episodi isolati in fatti di cronaca e in una percezione diffusa di pericolo.

Osservando la vita quotidiana, il meccanismo si ripete sempre uguale, in contesti diversi. Qualcuno si innervosisce al pronto soccorso quando entra una persona in codice arancione e passa davanti a chi ha un codice verde. Qualcuno perde la pazienza quando un pedone attraversa sulle strisce e costringe un’auto a rallentare. Qualcuno reagisce male se gli viene fatto notare che un parcheggio è riservato ai portatori di handicap. Succede perfino in piscina, dove l’altro viene mal tollerato sia se va troppo veloce sia se va troppo piano. Cambia il luogo, ma non cambia la logica: l’altro è visto come un ostacolo.

Il ciclista, in questo schema, diventa un bersaglio facile. È esposto, è vulnerabile, non ha protezioni. Ma soprattutto è semplice da etichettare. Diventa “quello che intralcia”, “quello che fa perdere tempo”, “quello che sta dove non dovrebbe stare”. E così si trasforma in una scusa comoda per sfogare frustrazione, rabbia e senso di impotenza.

Questa rabbia non nasce sulla strada. Oggi viene alimentata anche dal sentiment d’odio che circola sui social, dove l’aggressività è spesso premiata con visibilità e consenso. Lì il ciclista smette di essere una persona e diventa un’etichetta. E quando ci si abitua a disumanizzare qualcuno dietro uno schermo, farlo nella vita reale diventa più facile.

I social non creano l’odio, ma lo normalizzano. Trasformano l’insulto in opinione e la rabbia in atteggiamento legittimo. Quando poi questa tensione esce dal digitale e incontra uno spazio condiviso come la strada, le conseguenze possono diventare gravi.

Chi arriva a sparare non sta reagendo a una bici o a una precedenza mancata. Sta scaricando un disagio profondo, che avrebbe trovato prima o poi un altro pretesto. Oggi è stato un ciclista. Domani potrebbe essere chiunque.

Parlare di una guerra tra automobilisti e ciclisti è rassicurante perché semplifica. Ma è anche fuorviante, perché sposta l’attenzione dal nodo centrale: la crescente incapacità di tollerare l’altro quando limita, anche per pochi secondi, il nostro spazio o il nostro tempo.

La strada, in questa storia, è solo il palcoscenico. Il problema è altrove. E il ciclista, oggi, resta solo una scusa occasionale per odiare qualcuno.